sabato 13 ottobre 2012

Femminicidio in Argentina


Pene aggravanti se la vittima è legata al carnefice. Tutte argentine o no?
Questo articolo è stato scritto da Stefania Cantatore - Udi Napoli (http://www.womenews.net/spip3/spip.php?article10249)
Le donne Argentine hanno fatto si che il loro Parlamento riconoscesse che il legame tra vittima e carnefice costituisce un’aggravante nella violenza perpetrata su una donna. In Italia il contesto del legame affettivo, nei tribunali, apre la strada ad una serie di attenuanti che fanno pensare che l’idea del delitto d’onore non sia mai morta, nonostante la cancellazione delle leggi che lo prevedevano.
Il fatto che nella legge sia, pare, nominato il femminicidio, ha fatto fare alla notizia della sua approvazione, in poche ore, il giro del mondo, o almeno in quella parte di mondo dove le donne chiedono una legge organica contro le violenze sessuate. 
È ormai certo che per ostacolare la fino ad ora indisturbata strage di donne, bambine e bambini ci vogliono almeno delle leggi: così la notizia che un paese intenda contrastare istituzionalmente la violenza nascosta tra le pareti domestiche è incoraggiante. 
La legge non basta, serve, ma non basta e soprattutto non bisogna farsi confondere dalle parole.
Dire che femminicidio è una fattispecie di reato, rappresenta una strana e pericolosa cosa: riduce un crimine contro l’umanità, perpetrato sistematicamente, non riconosciuto in tutti i suoi aspetti, alla definizione così come formulata dai poteri.
Se il potere pronuncia parole per “differenziare” un crimine rispetto alla qualità della vittima, con le parole induce una gerarchia, ed è davvero folle pensare che “questi stati” possano per illuminazione improvvisa, invertire l’ordine che da sempre pone la vita degli uomini al di sopra di quella delle donne. 

Uxoricidio, infanticidio sono parole che hanno a lungo dissimulato, il valore relativizzato delle vite delle persone, commisurato a sesso ed età, ma soprattutto in relazione a chi ne dispone e chi le "tutela". E le donne non vogliono essere tutelate, vogliono che la loro vita abbia il valore che loro stesse attribuiscono alla vita di tutti. 
La vita e la libertà delle donne sono sottoposte in tutto il mondo alla benevolenza o all’efferatezza degli uomini, è questo il punto della lotta al femminicidio. Se il punto di partenza è una legge, come lo è, non deve questa stabilire gerarchie tra le donne e tra le vittime di fronte al loro diritto di essere vive. 

Se è facile uccidere una donna perché è moglie, è altrettanto facile per un cliente uccidere una prostituta, così come è stato facile appena ieri in Argentina fare sparire donne e violentarle “in stato d’emergenza”, prendere i loro bambini e privarli della storia.
Il movimento antiviolenza in Argentina, in Colombia, in Messico ha fatto gesti universali che hanno incontrato il pensiero delle donne in ogni parte del mondo e in Italia, tanto che ormai si può dire che per tutte, ovunque il femminicidio non può essere combattuto per gradi: non ci si può accontentare. Era quella legge che ha fatto il giro del mondo, che che le donne aspettavano nella Repubblica Argentina?
La legge sullo Stalking, in Italia, è l’emblema di un crimine unico spezzettato in diversi reati: stalking, molestie, stupro, una volta uxoricidio e poi? Che lo stato abbia questa concezione è perfettamente congruo alla nulla intenzione di promuovere la civiltà e la cultura delle relazioni .
L’andamento dei processi “per femminicidio concluso con la morte” in Italia dimostra che la gravità avvertita mediaticamente in particolari ricorrenze (25 Novembre, 8 Marzo) non è quella sentita normalmente nel pensiero dominante.
I processi infatti sono rimandati, invalidati indirettamente da norme confliggenti e sono rinviate sine die le udienze:contesto giudiziario tutt’altro che esemplare di un paese che rifiuta la sopraffazione e la moderazione violenta delle donne.
I processi si assomigliano, quelli per stupro e quelli per “omicidio di donna” in quanto al clima nel quale si svolgono. Li nominiamo così distinti, non perchè lo siano, ma per esaltarne le analogie. Reati analoghi con epiloghi diversi. Femminicidio è infatti molto più che un reato ma
comprende, piuttosto, nella sua definizione alcuni dei reati riconosciuti o no a seconda delle culture. 
È un processo politico-sociale di mantenimento delle gerarchie sessuali, che comprene ogni gesto criminale (codificato o no nel codice) che induca la morte o la minacci per escludere la libertà femminile nella relazione con l’altro genere in famiglia, sul lavoro, nel processo educativo, nello spostamento sul territorio, nell’esercizio dei culti.
Quello che succede è che di fronte alla verità la ragion di stato, il complesso di tutti coloro che la sostengono, sceglie di vedere e far vedere ciò che conviene. Il risveglio della cronaca sulla violenza relazionale domestica, nel mese di Marzo, ha permesso che calasse il silenzio sul
ricorso massiccio dei licenziamenti sessuati, ancora da quantificare. Senza che fosse dato conto della stretta dipendenza tra la perdita dell’autonomia economica e l’impossibilità di sottrarsi al condizionamento economico che sostiene appunto la violenza familiare, il ricatto retributivo, il mobbing sessuale. In altre parole il femminicidio.
La denuncia e la condanna della violenza nascosta nelle case, non possono rappresentare il pretesto alla presunzione di minor gravità per quella commessa altrove. Gli eserciti in missione che violentano e uccidono le donne fuori dalle proprie case, lontano dai legami affettivi, commettono crimini contro l’umanità che in quel caso sono nominati come danni collaterali.
Una legge che condanna un solo aspetto della violenza sessuata, come accade da sempre, in realtà la permette. L’uso di una definizione, inventata dalle donne, non fa di una norma una legge delle donne.
Femminicidio è ancora una parola che intimorisce il potere, una leva culturale: non è tempo di consegnarla a chi vuole piegarla alla ragion di stato.
21|04|12

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