Uccise in quanto donna: parliamone!
articolo di Claudia Moschi - 23.01.2013
Irritazione verso un’informazione parziale e superficiale. Ecco cosa ha spinto Emanuela Valente, creatrice del sito inquantodonna.it,
a costruire un archivio personale sui tanti femminicidi avvenuti in
Italia negli ultimi anni, con tanto di foto delle vittime e dei
carnefici.
Per Valente, giornalista freelance, nel Bel Paese “la
versione dei fatti solitamente riportata appartiene al carnefice e
troppo spesso le chiacchiere di paese vengono utilizzate per riempire le
colonne dei quotidiani. Alla fine è come se le vittime venissero calunniate, vedi il caso di Raffaella Ingrassia. I familiari, così come i controlli accurati della storia personale di chi non c’è più, non vengono presi in considerazione”.
Caso dopo caso la cartella personale è diventata un blog pubblico dove, ci dice, “ho inserito meno di un decimo di tutti quelli che ho raccolto. Femminicidi puri e semplici. Donne uccise in quanto donne, per rivendicazione di possesso e autorità da parte degli uomini”.
Quando si apre la pagina l’impatto visivo è violento e doloroso: una
breve didascalia accompagna la fotografia di tutte le donne uccise, con
qualche dettaglio sulla forma di accanimento preferita dai loro
aguzzini. A loro la Valente ha dedicato una pagina parallela a quella
delle vittime: un muro di foto segnaletiche con nome, cognome e pena
ricevuta. La maggior parte di loro ha subito una sentenza irrisoria
se paragonata al crimine commesso. Gli sconti di pena sono
innumerevoli, alcuni hanno ricevuto l’indulto, altri sono ancora in
attesa di giudizio.
“Se si analizzano le informazioni contenute in
ogni scheda si capisce che l’omicidio è solo la punta dell’iceberg.
Quasi tutti giungono dopo anni di violenze, sevizie e minacce, altro che
raptus di gelosia. Questa sembra essere una parola
adorata dai giornali italiani: raptus. Così si priva l’omicidio della
sua premeditazione perché è di questo che si tratta: le botte e le
ingiurie sono tutte fasi preliminari contro cui non si riesce quasi mai a
fare niente. E la cosa peggiore è che queste donne sono sole.
Le più coraggiose provano a parlarne ma troppo spesso non vengono
credute, neppure dalla propria famiglia”.
Ma quali sono le ragioni di questo isolamento?
“Per la
società è ancora difficile accettare l’evidenza di un uomo violento, a
maggior ragione i rispettabili professionisti bene educati e bene
istruiti”. Se si controlla il database questi uomini sono quelli che infliggono il maggior numero di coltellate.
Valente ha sviluppato la teoria del femminicidio sociale:
“A volte potremmo considerare la stessa società come carnefice. Prendiamo il caso di Elisabetta Grande e Maria Belmonte,
madre e figlia la cui scomparsa non è mai stata denunciata per 8 anni
finché non sono state trovate murate nelle pareti di casa. Padre e
marito sono indagati ma neppure in paese, Castel Volturno, nessuno ha
mai pensato di cercarle. L’omertà è spaventosa, quasi come il giudizio
delle malelingue di Taranto che hanno perseguitato Carmela Cirella, vittima 13enne di uno stupro di gruppo, internata in un istituto psichiatrico. Si è suicidata. Fa ancora parte del nostro sistema culturale
l’idea che la donna appartiene all’uomo e che sia suo diritto prenderla
a calci e pugni se non lo rispetta, ammazzarla se lo disonora
tradendolo o lasciandolo. Siamo decisamente lontani dal poter applicare
qualsiasi tipo di soluzione”.
La legge contro lo stalking, approvata solo nel 2009, è uno dei pochi validi strumenti a tutela delle donne, purtroppo però in Italia è inefficace:
“Le donne che trovano la forza di rivolgersi alle Forze dell’Ordine
si sentono rispondere . Vanno fino in fondo
solo le donne che ormai hanno capito di essere spacciate. Spesso,
infatti, sono quelle che poi vengono uccise. È un circolo vizioso in cui
le istituzioni non riescono a inserirsi”.
Un’altra parola che spesso viene accostata a femminicidio è sovraesposizione mediatica:
“È vero, se ne parla molto. È un argomento che fa vendere, tanto che a
volte si inserisce nella categoria dei delitti di genere anche episodi
ad essi estranei. Però credo che sia uno di quei casi in cui sia meglio
parlarne troppo che troppo poco. Le donne non possono più convincersi di
non sapere quale destino le aspetta. Grazie alla maggiore percezione
del problema alcune smettono di vergognarsi, di vivere le violenze come
un fallimento personale, cercano aiuto. Si rivolgono a centri di ascolto e rifugi femminili
dove gli vengono spiegate le loro possibilità. È vero che magari queste
sono inefficaci ma alcune trovano la forza di allontanarsi, di
scappare. Altre volte, purtroppo – in questi rifugi che funzionano su
base volontaria vista la mancanza di fondi statali –
le donne incontrano personale non propriamente formato e questo spesso è
controproducente. Ma bisogna comunque continuare a parlarne”.
E grazie al lavoro di Emanuela Valente, forse, potremmo imparare a parlarne come si deve.
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