domenica 16 febbraio 2014

La protesta in Bosnia

Ormai sono molti i popoli nel mondo che vedono calpestati i loro diritti umani da governi che non vogliono, e la gran parte di questi è insorta chiedendo con forza che sia rispettata la dignità delle persone, la libertà di espressione, il diritto alla propria cultura, il diritto a vivere una vita senza dittatura, senza repressione, una vita tranquilla con un lavoro e una famiglia, con la sicurezza per il benessere proprio e del Paese...
E' sulle ultime storie dei popoli vs governi che ho deciso di postare in questi giorni. Non andrò a ritroso nel tempo perché lo scopo è quello di evidenziare quanto le proteste - nel "post-globalizzazione" - accomunano un popolo all'altro. Mentre invece la storia di ogni Paese è a se (...)

articolo pubblicato su LaStampa

12 febbraio 2014 - Scontri in Bosnia: Da dove arrivano le ultime immagini degli scontri in piazza tra agenti armati di cannoni a acqua e giovani indignati (http://youtu.be/MVfrcCMvnUc)? Kiev? Istanbul? Cairo? Fuochino. La risposta è Sarajevo, dove da ore si confrontano la polizia e i manifestanti che denunciano la crisi economica e il piano di privatizzazioni. Le proteste sono iniziate a macchia di leopardo tre giorni fa, Tuzla, Zenica, Jajce, Bihac, Gorazde, Visoko, Brcko, Banja Luka, lanci di uova, sassi e slogan contro «il governo ladro, corrotto, nepotista»: è la prima volta che la Bosnia del dopoguerra vede scendere in strada tante persone senza distinzioni etniche tra serbi, croati, musulmani. Adesso la rabbia dilaga nella capitale e il bilancio è già di 26 feriti, l’ingresso del governo nazionale dato alle fiamme (ci sono feriti anche nelle altre città del paese).  
La Bosnia, uno dei paesi più poveri d’Europa, con la disoccupazione al 44%, un abitante su 5 al di sotto della soglia di povertà e i salari medi che si aggirano sui 300/400 euro, aggiunge la sua voce al coro multilingue del malcontento sociale che da tre anni rimbalza dal mondo arabo alle piazze occidentali di Madrid, New York, Tel Aviv, Atene, dalla Turchia all’Ucraina, dalla Russia alla Tahilandia. Le ragioni sono tante, diverse. Ma comune è la sensazione che la politica, tanto quella esercitata democraticamente quanto il pugno di ferro delle dittature militari e religiose, si sia allontanata troppo e fatalmente dai bisogni delle persone reali. Come se prima ancora che piazza tra Tahrir, Taksim, Maidan, Puerta del Sol, Syntagma, ci fosse un filo rosso a legare l’arroganza dei governanti antistoricamente convinti di essere indiscutibili, siano essi gli ingiustificabili satrapi mediorientali (ma anche asiatici) o i nerboruti uomini di Putin, i santoni della finanza o i tecnocrati europei.  
Gli analisti, impreparati a cogliere in anticipo l’insoddisfazione che montava con la crisi economica esplosa nel 2008, hanno letto a posteriori uno spunto nel pamphlet del 2010 dell’ex diplomatico e ex partigiano francese “Indignatevi”. E lui, morto ultranovantenne nel 2013, ha fatto in tempo a vederne parecchi di giovani indignati, da quelli delle primavere arabe agli “indignados” spagnoli fino ai militanti di Occupy Wall Street. Poi l’intervallo tra una protesta e l’altra è diventato sempre più breve. Quando tre mesi fa i ragazzi di Kiev sono scesi in strada in nome dell’Europa (che invece i loro coetanei greci considerano tiranna) stavamo ancora masticando le immagini delle manifestazioni turche di piazza Taksim intervallate dalle ormai irriducibilmente infuocate piazze egiziane. Intanto la Tahilandia si spaccava violentemente tra i sostenitori dell’ex premier Thaksin, ossia le classi più povere, e gli oppositori, detti i gialli, rappresentanti delle elite ostili al governo della sorella di Thaksin (che ha rivinto le elezioni).  
“Negli ultimi anni in tutti i paesi la voce del popolo ha gridato in silenzio perchè i sindacati e le tradizionali organizzazioni di rappresentanza si sono ritirate lasciando un grande vuoto” ci dice il ballerino turco Erdem Gunduz, noto come “Standing man”, il 34enne che a giugno è rimasto immobile per oltre sei ore in piazza Taksim, a Istanbul, per protestare contro la svolta autoritario-religosa del premier Erdogan. Un vuoto da colmare. Soprattutto con internet, l’autostrada della globalizzazione sociale, che rilancia in tutte le lingue il mantra “indignatevi”. Così, anche laddove le ragioni del malcontento sono diversissime, le piazze reiterano sit-in (onnipresenti le tende) e scontri con le forze dell’ordine, producono proteste creative tipo agit prop (col passare dei mesi anche i governi hanno imparato a usare Facebook e così l’attivismo è diventato meno telematico e più estemporaneo), si riempono di slogan simili (Tahrir per esempio è diventata una parola iconica) ma anche di abili demagoghi più lesti di altri, a qualsiasi latitudine, a cogliere l’umore popolare e trasformarlo in populismo. 

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