venerdì 10 febbraio 2017

Michele: "Non posso passare il tempo a cercare di sopravvivere"

LA LETTERA DI MICHELE, SUICIDA A 30 ANNI CHE TUTTI DOVREMMO LEGGERE: DA QUI BISOGNA TROVARE LA FORZA DI NON MOLLARE

La denuncia dei genitori: "Nostro figlio ucciso dal precariato".

Con la seguente lettera, un trentenne friulano ha detto addio alla vita. Si è ucciso, stanco del precariato professionale, e accusa chi ha tradito la sua generazione lasciandola senza prospettive.
La lettera viene pubblicata per volontà dei genitori, perché questa denuncia non cada nel vuoto: «Di Michele - dice la madre - ricorderemo il suo gesto di ribellione estrema e il suo grido, simile ad altri che migliaia di altri giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte ad una realtà che distrugge i sogni».


"Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.

Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.
Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.

Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.

Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo.

Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno.

Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.
Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri.

Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.
Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità.
Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.

P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.
Ho resistito finché ho potuto."

Il commento seguente è di Enrico Galiano, uno stimato professore
di Pordenone (classe 77), insegnante di Lettere nella scuola media, scrittore, videomaker:

Volevo solo dirvi questo.

A voi, che avete quindici anni, o venti, e avete letto la lettera del ragazzo che si è tolto la vita.
Capire le ragioni per cui l'ha fatto, quelle vere, è impossibile.
Se lui è arrivato a tanto significa che la sua soglia di sopportazione era giunta al limite.
Il suo gesto chiede solo silenzio e rispetto.

Ma quelle parole, quelle parole no. Quelle parole non chiedono silenzio, ma una risposta.

Tutte, ma soprattutto queste: “Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato”.

Voi, voi che siete qui, che siete vivi, ecco, non credete a quelle parole.
Non credete che ci sia qualcosa che vi è dovuto.
Purtroppo o per fortuna, nel mondo in cui siete capitati, le cose bisogna andare a prendersele, nessuno ti regala niente. Bisogna rischiare, mettersi in gioco, ritrovarsi la faccia nel fango così tante volte da dimenticarsi il colore della propria pelle.

Per i giovani poi, è tutto abbastanza uno schifo, lo so.
Ma non credete che qualcuno vi stia rubando il futuro. Non è così che funziona. Il futuro è qualcosa che ti rubano, sì, ma solo se tu li lasci fare.

Non credete che il dolore che provate sia una truffa, una promessa non mantenuta. La vita è anche dolore, è anche privazione, noia, fame, fallimento. Anzi, vi svelo un segreto: per la maggior parte delle volte è questa roba qui.
È noia e dolore come è estasi e gioia, vittoria ed esaltazione. Fa tutto parte del gioco, nessuna truffa.

Anzi, lasciatevelo dire: certi dolori sono una benedizione. Ti riallineano le percezioni, ti fanno capire di chi ti puoi fidare, e ti fanno vedere anche chi sei tu, chi sei tu per davvero.

Per cui a lui che non ce l'ha fatta, a chi gli voleva bene, un grande abbraccio. Ma a quelle parole c'è solo una cosa da dire, ed è: no.